Le Livre de l’eschiele Mahomet
- Titles
- Livre de l’eschiele Mahomet.
- Dating
- Maggio del 1264 è la data della traduzione dallo spagnolo in francese che reca il colophon del codice Laud Misc. 537 della Bodleian Library di Oxford.
- Incipit
- Ce est li livre qi hom appele en sarrazinois ‘Halmaereig’, que vuolt tant dire en françois come ‘monter en alt’. Et ce livre fist Mahomet, et lui mist cestui nom, et por ce l’appelent issinc les gentz.
- Explicit
- Et fu ce livre escrit en li oitisme an aprés que li espirit de Diex vint sor moi et que je comencei ad profetizier.
- Form of the text
- Prosa.
- Language
- Francese antico con presenza di italianismi (secondo Groult) e di provenzalismi (secondo Wunderli).
- Topic
- Traduzione francese di una delle numerose redazioni del Kitāb al-Micrāǧ, il Libro della Scala o Libro dell’Ascensione al cielo – che narra il viaggio notturno e ultraterreno che Maometto compie attraverso i cieli fino in Paradiso e poi all’Inferno –, realizzata da Bonaventura da Siena, notaio, copista e traduttore italiano, che lavorò alla corte del re di Castiglia Alfonso X, il Savio.
- Type of text
- La traduzione di Bonaventura da Siena non è realizzata direttamente dall’arabo, ma da una prima versione dall’arabo in castigliano, oggi perduta, che fu eseguita per ordine di Alfonso X di Castiglia da un certo Abraham (o Abrahem) al-faquím, un medico ebreo, che lavorò come traduttore presso la corte alfonsina almeno dal 1264 al 1277.
Autore
Bonaventura da Siena
Manoscritti
Oxford, Bodleian Library, Laud Misc. 537
Testo
Il Livre de l’eschiele Maomet è la traduzione francese di una delle numerose redazioni della leggenda musulmana medievale del Kitāb al-Micrāǧ (il Libro della Scala o Libro dell’Ascensione [di Maometto] al cielo) che, fiorita intorno ad un oscuro versetto coranico (Corano XVII 1), racconta il viaggio notturno ed ultraterreno che il profeta Maometto compie attraverso i cieli fino in Paradiso e poi all’Inferno. Si tratta di un testo che per decenni ha appassionato studiosi di tutto il mondo, essendo stata formulata l’ipotesi che esso costituisca una delle fonti islamiche cui Dante ha attinto nella composizione della Commedia.
La traduzione francese del Kitāb al-Micrāǧ fu approntata, insieme ad una traduzione in latino dello stesso, intorno alla seconda metà del XIII secolo, presso la corte del re Alfonso X, il Savio, di Castiglia dal notaio e copista italiano, Bonaventura da Siena, non già direttamente dall’arabo, ma da una prima versione dall’arabo in castigliano che il sovrano commissionò ad «Abraham Judeus, phisicus», da identificarsi verosimilmente con il traduttore ebreo Abrahem, autore di altri due importanti lavori di traduzione alla corte alfonsina (la Açafeha dell’astronomo al-Zarqāli e il Liber de mundo et coelo di Ibn al-Haytam), e il cui nome compare in vari documenti accompagnato dalla qualifica alfaquim (dall’arabo al-hakīm, corrispondente al latino phisicus).
Della versione francese si conosce attualmente una sola redazione, tramandata dal ms. Laud Misc. 537 della Bodleian Library di Oxford; mentre la traduzione latina è stata tradita da due codici: l’uno della Bibliothèque Nationale de France di Parigi (Lat. 6064), e l’altro della Biblioteca Apostolica Vaticana di Città del Vaticano (Vat. Lat. 4072), contenente la famosa Collectio Toledana, una raccolta di testi scientifici e filosofici arabi fatti tradurre in Toledo a partire dal XII sec. per iniziativa di Pietro il Venerabile, che favorì in tal modo uno scambio di conoscenze fra mondo islamico e mondo cristiano che fu fra i momenti più alti della storia intellettuale del Medioevo.
La versione castigliana del Kitāb al-Micrāǧ è andata perduta e ciò che se ne conserva è soltanto una testimonianza parziale costituita dal riassunto contenuto nell’opera attribuita al frate Pedro Pascual, dell’ordine della mercede, dal titolo Sobre la seta mahometana, un trattato che il santo avrebbe scritto a Granada, dove fu prigioniero degli arabi dal 1297 fino al dicembre del 1300, quando venne martirizzato.
Il testo in castigliano venne quindi tradotto anche in latino, col titolo Liber Scale Machometi, e in francese, con quello di Le Livre de l’Eschiele Mahomet, ma non è chiaro se contestualmente, dato che la sola indicazione cronologica che possediamo è quella che si legge nel colophon della versione francese. Maggio del 1264 è infatti la data della traduzione dallo spagnolo in francese che reca il colophon del codice Laud Misc. 537 della Biblioteca Bodleiana di Oxford: «Le livre fu de espaignol en françois tornéz en l’an Nostre Sire Diex mil et ducenz et sessant et quatre ou mois de maij». Un primo terminus post quem è dato comunque dal fatto che Alfonso X il Savio nella traduzione francese è detto «Re dei Romani», ed egli fu eletto alla carica imperiale il Io aprile 1257. Una seconda data post quem, fornita ancora dalla titolatura del sovrano che nella versione francese come in quella latina comprende fra i suoi titoli quello di re dell’Algarve, va fissata invece al 1260. È del 6 giugno 1260, infatti, il primo documento nel quale l’Algarve figura nella titolatura vera e propria del sovrano: si tratta di un privilegio per la Chiesa di Cordova, dove Alfonso il Savio si dice nell’intestazione «yo sobre dicho Rey D. Alfonso, regnant en uno con la Reyna Doña Jolant mi muger, en Castiella, en Toledo, en Jahen, en Baeza, en Badalloz et en el Algarve». Tale titolatura diventa poi costante ed è quella adottata anche nelle traduzioni in francese e in latino del Libro della Scala, che è dunque effettivamente posteriore al 1260. La data del maggio 1264, del codice della Bodleiana, è quindi accettabile (cfr. Cerulli 1949, 13-15).
Nel prologo compare il nome del traduttore che, per entrambe le versioni, è quello di Bonaventura da Siena, di cui si sa soltanto che fu presente alla corte alfonsina probabilmente con altri esuli toscani. Nel testo francese si legge: «je, Bonaventure de Sene, notaire et escriven mon seignour le roy devant noméz, par son comandement le tornei de espaignol en françois a tant poi com jeo en sai», a cui corrisponde in quello latino: «sic ego Bonaventura de Senis, prefati Domini Regis notarius atque scriba, de mandato eiusdem Domini librum ipsum … de hyspano converti eloquio per singula in latinum».
Nel 1951 Jacques Monfrin ha negato l’attribuzione della traduzione francese a Bonaventura da Siena, ritenendolo autore della sola versione latina del Kitāb al-Micrāǧ. A suo giudizio, l’attribuzione a Bonaventura dell’Eschiele de Mahomet, che si legge nel prologo della stessa, costituirebbe infatti una mistificazione pari a quella che, sempre nel prologo, vorrebbe il testo francese derivato dal testo spagnolo (le tornei de espaignol en françois), quando in realtà esso segue quasi parola per parola il testo latino.
Wunderli 1965 e 1969, tenendo conto della clausola finale (Bonaventura de Senis per alium scribi fecit) del documento notarile del 10 maggio 1266, pubblicato da Daumet 1913 (cfr. “Autore”), che proverebbe come l’atto in questione sarebbe stato scritto da un copista o da un notaio per un superiore (forse addirittura il capo della Cancelleria) che era proprio Bonaventura da Siena, ritiene che qualcosa di analogo possa essersi verificato anche nel caso della traduzione francese: che Bonaventura da Siena, cioè, abbia fatto tradurre su sua istanza l’Eschiele ad un traduttore di origine provenzale sulla base della sua traduzione latina (molti infatti sarebbero a giudizio del filologo tedesco i provenzalismi disseminati nel testo; cfr. “Lingua”).
Si rimane dunque in attesa che ulteriori argomenti e uno studio più approfondito della lingua del testo possano dirimere la questione.
Contenuto
Il racconto fonde insieme due leggende arabe diverse: quella dell’Isrā’ (ovvero il viaggio notturno) e quella del Micrāǧ (l’ascensione). La prima leggenda non occupa tuttavia che uno spazio molto ristretto: la fusione con quella dell’ascensione avviene infatti già al V capitolo. La seconda leggenda per contro occupa 75 capitoli.
È lo stesso Maometto a narrare, in prima persona, le sue avventure. Sta riposando una notte, quando gli appare l’angelo Gabriele e gli ordina di compiere il viaggio. Maometto sale sul cavallo al-Burāq e si avvia verso Gerusalemme, resistendo a tre voci che cercano di fermarlo: sono quelle del Giudaismo, del Cristianesimo e del mondo terreno con le sue tentazioni, secondo la spiegazione dello stesso Gabriele. Giunto al tempio di Gerusalemme, viene onorato da tutti i profeti a lui precedenti, quindi, per una scala preziosa, comincia la sua ascesa verso il cielo. Nel salire sulla scala vari angeli gli si fanno incontro: sono l’angelo della morte, quello della preghiera, uno di fuoco e di neve, un quarto straordinariamente grande, un quinto tesoriere dell’inferno. Con tutti loro Maometto parla, e di tutti apprende la natura e le funzioni. Finalmente, il profeta e la sua guida giungono al primo cielo, che è tutto di ferro, e vi incontrano Giovanni Battista e Gesù. Passano quindi al secondo, di rame, e vi trovano Giuseppe. Nel terzo, d’argento, sono Enoc ed Elia. Nel quarto, d’oro, è Aronne. Nel quinto, di pietra meravigliosamente candida, si trova Mosè. Abramo occupa il sesto cielo, fatto di smeraldo, e Adamo il settimo, di rubino. Alla porta di ogni cielo, Gabriele batte ed ottiene il permesso di ingresso; ovunque s’incontrano angeli con proprio aspetto e caratteristiche. La visita dei cieli si conclude con l’ingresso nell’ottavo, di topazio, dove sono i Cherubini. Qui Gabriele lascia una prima volta Maometto, in modo che possa comparire innanzi a Dio, che gli appare in tutto il suo splendore, nel trono portato dagli angeli, con la tavola in cui vengono scritti i destini e la penna che li decreta. Maometto riceve l’ordine di un digiuno di quaranta giorni all’anno e cinquanta preghiere ogni giorno.
Maometto torna a questo punto da Gabriele, ed insieme ridiscendono al settimo cielo. Ciò che segue è un’estesa descrizione della struttura del Paradiso, degli angeli e delle ricompense dei beati. Maometto si trova quindi una seconda volta alla presenza di Dio, dal quale riceve sia il Corano che prescrizioni di digiuni e preghiere.
Segue una seconda visione divina, dove non vi è alcuna allusione alla prima: fatto che indurrebbe a pensare che si tratti di un doppione dell’altra, sia pure con elementi in parte diversi.
L’angelo Gabriele annuncia ora a Maometto la volontà di Dio che egli visiti l’Inferno, del quale gli spiega la struttura. Si tratta di sette terre, l’una sotto l’altra, poste tutte però al di sotto della nostra. Le terre, come gli uomini, i mari, ed i pesci che ne fanno parte, sono tutte di fuoco. Tali terre poggiano su una grande pietra, al di sotto della quale si trova un pesce. Nella prima terra i dannati sono trascinati da un vento terribile; nella seconda, li tormentano enormi scorpioni; nella terza, grandi uccelli; nella quarta, serpenti; nella quinta, pietre di zolfo; nella sesta, acque bollenti ed amare; la settima terra, infine, vede Satana incatenato con i suoi diavoli e le sue grandi corna arrivano fino a noi.
Il racconto si fa a questo punto più complicato, per via di contaminazioni di motivi diversi sull’origine e la struttura dell’universo e sul Giudizio universale. Riprende poi la descrizione dell’Inferno, con la divisione dei dannati nelle singole terre in corrispondenza delle colpe commesse: idolatri, apostati, avari, giocatori, inadempienti ai precetti religiosi, contradittori dei profeti, fraudolenti, che porta nuovamente al Giudizio universale, al giorno in cui, cioè, un’enorme ed orribile bestia dalle trentamila bocche sarà condotta dinnanzi a Dio ed ai peccatori, e le sarà affidato il compito di tormentare i dannati nell’Inferno. Sarà portata la bilancia del giudizio, dove le anime, risorte e radunatesi nude al cospetto di Dio, vedranno pesate le buone e le cattive opere. Le anime passeranno poi sul ponte Siràt, costruito a sua volta di sette ponti, e ad ognuna sarà posta una domanda: chi risponderà male cadrà nel baratro dell’Inferno. Gabriele indugia nella descrizione del Siràt, che contiene monti e valli, e tutto intorno è avvolto da fiamme, dove enormi draghi e scorpioni tormentano i peccatori. I musulmani lo attraverseranno più o meno velocemente, a seconda dei loro meriti.
Dal ponte, Maometto dà un ultimo sguardo ai dannati sotto di lui e Gabriele gli spiega le pene dei seminatori di discordia, dei falsi testimoni, degli adulteri, dei fornicatori e dei ricchi orgogliosi. Insieme ridiscendono adesso per la scala che conduce al tempio di Gerusalemme. Qui Maometto si separa dalla sua guida e, risalito sulla fida cavalcatura, riprende la via della Mecca, dove ritorna poco prima dell’alba. Maometto racconta ora la sua straordinaria avventura ai suoi familiari, che lo sconsigliano di parlarne con altri: i Meccani infatti rifiutano in principio di credergli e solo più tardi saranno di diverso avviso. Maometto affida la redazione scritta del suo viaggio ai fidi Abu Bakr ed Ibn Abbàs.
Per ulteriori dettagli sul contenuto del testo, si rimanda, a titolo indicativo, a Moscati 1954, 125-127 e Wunderli 1965, 73-77.
Lingua
Un nodo centrale dell’Eschiele de Mahomet è costituito dalla sua caratterizzazione linguistica: i pareri fortemente contrastanti degli studiosi, che in varia misura si sono occupati della lingua della versione francese del Kitāb al-Micrāǧ (per Groult 1950 gli italianismi presenti nel testo sono molteplici e certi; per Monfrin 1951, viceversa, essi sono pochi e dubbi; del tutto assenti infine per Wunderli 1965 e 1968, che spiega gli esempi di Groult piuttosto come dei provenzalismi o dei latinismi) mostrano, infatti, come il problema del possibile grado di italianizzazione del testo resti una questione ancora aperta, che necessita di una riconsiderazione complessiva da condursi ex novo.
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Crediti
Scheda a cura di Serena Modena.
Ultimo aggiornamento: 21 maggio 2013.